Genova, per me

Genova, per me

In questi giorni ho pensato a Genova molto spesso. All’inizio c’era il ponte al centro dei miei pensieri, insieme al ricordo delle decine e decine di volte che l’ho attraversato e alla sensazione di panico che mi prendeva ogni volta per quel lungo salto nel vuoto. Lo confesso: descrivendo nelle prime pagine del mio romanzo Raccontami tu la fuga di Caterina nella notte, e le sue paure nell’attraversare quei viadotti alti nel buio dell’autostrada, in realtà ho raccontato quel mio disagio, che mi spingeva ad attraversarlo senza osare guardarmi intorno. Credo sia per questo motivo che quelle pagine sembrano così realistiche, come hanno osservato tante lettrici e lettori.

Ma poi dal ponte i miei pensieri si sono concentrati sulla città, su cosa Genova ha rappresentato per me, nata nell’estremo ponente ligure, nella Riviera dei Fiori, sul confine. E ho capito che per me Genova prima di essere una città, molti anni prima di vederla con i miei occhi, è stata una narrazione. Un racconto che me la rendeva lontana ma nello stesso tempo mi incuriosiva, proprio come avviene con i miti. Genova all’inizio per me è stata il luogo misterioso dove si andava per risolvere i problemi.   Prima di tutto quelli di salute, quelli gravi, che i medici della nostra città non potevano risolvere. Quelli che affliggevano i bambini. Lì infatti c’era il Gaslini, l’ospedale dei bambini, e ci si andava quando il pediatra di famiglia non sapeva più cosa fare. “Portatelo al Gaslini…”, mormorava con un sospiro, e i genitori impallidivano, perché significava che era davvero una cosa grave! Ricordo una frase del genere, nei discorsi sottovoce tra mia mamma e mio papà a proposito delle indecifrabili allergie di cui soffriva mio fratello e che per molti anni avevano fatto convergere su di lui attenzioni e cura (che nella pratica significavano uova sbattute per merenda ma solo per lui, biscotti Oro Saiwa nel latte invece del pane, e altri privilegi invidiabili). Ma a Genova tutto si sarebbe risolto.

Poi c’erano faccende misteriose, che affioravano nei discorsi della sera, in cucina: “Non abbiamo risolto niente, dovremo andare a Genova…”. Un luogo indefinibile, ma dotato di grandi poteri. Dove c’era il mare ma non si vedeva mai. Non dal finestrino del treno quando si arrivava in prossimità della città. Il mare scompariva, al suo posto mostri di ferro arrugginito, acciaierie e raffinerie, palazzoni grigi e tristi, giusto un attimo di respiro (“guarda laggiù, la vedi? E’ la Lanterna…”), subito inghiottita dalla galleria di Principe, che si spalancava come le fauci di un mostro dove il treno entrava lentamente e spesso si fermava, e si restava avvolti dal buio e dai rumori metallici delle manovre. Papà ma perché ci siamo fermati? Facciamo manovra, non vedi? Papà faceva il ferroviere, su quella linea Ventimiglia Genova, e questa era un’altra delle narrazioni che mi hanno raccontato la città. Secondo mia madre lui a Genova aveva un’amica clandestina (la parola amante non veniva pronunciata davanti ai bambini, amica sembrava più dicibile). Città pericolosa, quindi, causa di lacrime e litigi, da cui era meglio tenersi alla larga. Ma lui doveva andarci per forza, e da qui rimproveri, recriminazioni, accuse e difese. Pianti.

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Crescendo, ho capito che era anche una città utile: se per esempio si rompeva la radio e bisognava comprarne una nuova si andava a cercarla a Genova. Ricordo di esserci andata alcune  volte con mio padre (quanto mi piaceva quando mi portava in treno con lui!, e come era bello nella sua divisa di capotreno). Si scendeva alla Stazione di Principe, e quasi subito ci si infilava in Via Prè, la strada del contrabbando. Ricordo la meraviglia per tutte quelle merci di ogni tipo esposte lungo i banchi, e le friggitorie dove andavamo a mangiare la farinata bollente. Si, c’erano signore e signorine che animavano la strada, appoggiate ai muri del vicolo; intuivo senza capire, e tenevo tutto accuratamente nascosto a mia madre quando al ritorno mi chiedeva conto di dove eravamo stati e a fare cosa. Non sapevo ma capivo che serviva una narrazione edulcorata. Ero una bambina intelligente e giudiziosa. sa-pesta

Quando poi da adulta l’ho finalmente vista davvero, la narrazione è diventata mia, mio lo sguardo incantato a risalire lungo le facciate dei palazzi del centro storico, la musica di Fabrizio de Andrè nelle orecchie, che raccontava una Genova da amare, con il suo dialetto un po’ ostico e un po’ dolce. Genova nel cuore.Piazza Banchi Genova