L’Isola di Altrove

L’Isola di Altrove

“Sin dall’inizio ero così brutta che mia madre ha preferito abbandonarmi qui, invece di tenermi con sé. Una come me, dicono, una come me non può essere di qui, così brutto qui non c’è nessuno, di madri simili qui non ce n’è. Dicono mi abbia messo in uno scatolone pieno di carta di giornale, mia madre, come immondizia che si aggiunge ad altra immondizia. Lo scatolone, dicono, l’ha poggiato su un gradino della scala del Tempio. Nel bel mezzo della notte, nel bel mezzo di un acquazzone, nel bel mezzo dell’inverno. Che razza di madre, dicono, che razza di peccato, e alzano gli occhi al cielo, ha infangato tutto il villaggio. E che io venga dall’Altrove è più che evidente, di lì, da che mondo è mondo, viene solo il male. E fanno quel gesto con la mano, quello che fanno sempre quando si lamentano. Una come me, dicono, una così l’avrebbero eliminata. E io mi auto-elimino, mi auto-elimino ogni giorno”.                                                                                  karen

Inizia così il romanzo L’Isola di Altrove, con i pensieri della ragazza senza nome, che si auto-elimina per passare inosservata e nascondere meglio quello che sta accadendo in lei: la lenta presa di coscienza di sé, dell’ingiustizia subita, dell’emarginazione in cui il Villaggio la costringe a vivere, sempre sulla difensiva. Non ha nome perché non si sa da dove venga e tanto basta a farne un’emarginata che non merita nemmeno un nome, secondo ciò che dettano le regole della società maschilista e ferocemente patriarcale governata dal Consiglio degli Anziani dell’isola. Eppure la ragazza vive, e pensa, e si costruisce una propria idea del mondo e di se stessa, anche grazie alle pochissime persone che le vogliono bene: il Priore del Tempio che l’ha trovata quella notte e l’ha tenuta con sé e protetta con la propria autorità, un’anziana saggia che sa leggere e scrivere anche se non può manifestarlo perché alle donne è vietato, e che le insegnerà a conoscere il mare e a nuotare; un vecchio mugnaio che abita sulla montagna e che la soccorrerà nel momento più drammatico. La ragazza racconta a se stessa la propria storia per avere un mirologio, un canto funebre in cui si tesse il racconto della vita di chi muore. Perché “Il mio mirologio devo cantarmelo da sola, non posso aspettare di essere già morta, altrimenti non sarò mai esistita”. E così si snoda la storia attraverso centoventotto strofe per 460 pagine: ogni strofa ha un titolo, e la voce prima ingenua e via via sempre più consapevole ci porta dentro i pensieri e i giudizi sempre più impietosi sul modo di vivere del villaggio, i privilegi degli uomini e la fatica quotidiana delle donne, i soprusi e le violenze che sono costrette a subire, le ribellioni. Ma con i suoi occhi vediamo anche la ciclicità della natura, l’alternarsi delle stagioni, la bellezza dell’isola, i riti quotidiani tessuti dalle donne che consentono alla vita di proseguire e riprodursi. L’autrice di questo romanzo, scritto con un linguaggio poetico e nello stesso tempo di grande potenza epica, è attrice e drammaturga tedesca, si chiama Karen Kohler, e questo è il suo esordio nella narrativa. In una bella intervista rilasciata a Francesca Maffioli per il quotidiano Il Manifesto, ha dichiarato che nonostante il taglio distopico il romanzo in realtà parla di noi, del nostro presente, svela cosa accade quando le donne vengono cancellate dalla narrazione storica e ridotte a una mera funzione. Dall’invisibilità che le è servita per proteggersi la ragazza acquisterà un nome e la forza di capovolgere la rappresentazione maschile, trasformando i meccanismi della sua oppressione in un’ abilità, che userà.

Karen Kohler, L’Isola di Altrove, Guanda 2020 (traduzione di Margherita Belardetti).