Un giorno verrà
Il libro è chiuso, e dopo l’epilogo Giulia Caminito ci ha spiegato da dove è nata la storia che ha raccontato, come hanno preso vita i personaggi e le personagge, di quali vicende storiche si sono nutriti. Chi come me dell’anarchia conosceva poco oltre a un pugno di nomi, qualche titolo e un paio di antiche canzoni, perché l’anarchia italiana ha lasciato poche testimonianze scritte, dopo aver letto il romanzo di questa giovane scrittrice italiana, ora ne sa molto di più. Ma Un giorno verrà è un romanzo in cui la storia è uno sfondo su cui si muovono donne e uomini miti e ribelli allo stesso tempo, sconfitti ma mai rassegnati, piegati dalle avversità della vita e nello stesso tempo tenaci nella resistenza. La vicenda principale si svolge agli inizi del ’900 in un piccolo borgo della Marca anconetana, un paese che si chiama Serra de’ Conti, dove vige la mezzadria come in tutta l’Italia e domina la povertà. I personaggi si muovono tra la terra, le misere case, le campagne circostanti, i boschi dove abitano i lupi, il mare lontano di cui si avverte a volte l’odore. In cima al paese il convento innalza la sua presenza rassicurante e misteriosa, un mondo governato da un’Abbadessa in odore di santità, rispettata da tutti e odiata dalle gerarchie ecclesiastiche per la sua tenace indipendenza: è suor Clara, soprannominata la Moretta per il colore della pelle. E poi c’è il Sudan, il luogo da dove è arrivata bambina fatta schiava, e le trincee del Carso che hanno inghiottito tanti ragazzi del ’99, come Nicola. E la settimana rossa di Ancona, e il mito della libertà da cercare in America. Adulti e bambini si muovono dentro questo scenario, in apparenza rispondendo a un destino già deciso dalla Storia, destino che in realtà è tutt’altro che immobile, ma piuttosto segnato e modificato dai loro gesti e dalle loro scelte. Un universo in movimento, dove bambini allevano lupi, bambine ribelli partoriscono figli, monache resistono e diventano comunità ordinatrice. Giulia Caminito non racconta un mondo vinto dalla durezza della vita, ma una comunità di donne e uomini che non si piegano, simboleggiato magnificamente dalla sassaiola che impedisce agli emissari del vescovo di portar via le monache da un convento diventato pericoloso. Un mondo simile a quelli raccontati dalle fiabe, dove i bambini alla fine ritrovano la strada. E a mio avviso raggiunge questo risultato anche attraverso un linguaggio aereo, reso leggero dalle tante similitudini che usa a piene mani, direi spudoratamente, facendo sì che il racconto acquisti impensati toni fiabeschi.
Ora che la lettura è terminata sento che non dimenticherò la Moretta e Nella, Lupo, Nicola e Cane, e Violante e Antonio. E il patriarca Giuseppe, anarchico che sa fabbricare le bombe. E pure Luigi, con la sua imperdonabile e tragica imperfezione. E come non citare anche l’anarchica abruzzese e poeta Virgilia D’Andrea, realmente esistita e così poco conosciuta, che compare nelle ultime pagine del romanzo insieme alle poesie della maestra rossa Ada Negri. Un mondo che rivive grazie alla bravura della giovane scrittrice, qui alla seconda prova dopo l’esordio sorprendente con La grande A (Giunti 2016). E devo dire che se quello era ispirato a vicende di famiglia, poco importa che anche questo nasca dalla medesima fonte. Si tratta di “un’altra radice, una delle mie, con la quale provo a ricostruirmi e a crescere”, scrive Giulia Caminito alla fine, aggiungendo però che molto è stato inventato. Sento di volerla ringraziare per questo dono di sé, ma voglio anche ribadire che alla fine da dove arrivano le storie poco importa, se quello che è venuto fuori da quella fonte e da quel desiderio è una storia indimenticabile.