Tre bambine inconsuete

Tre bambine inconsuete

cover_tre bambine inconsuete 107x150Quello che siamo diventate e come siamo oggi  ognuna di noi ha cercato di capirlo nel corso degli anni che ci hanno condotte fin qui. Ormai dovremmo sapere quasi tutto dei talenti che la nostra vita ci ha messo a disposizione, quelli che abbiamo saputo mettere a  frutto e quelli che ci sono sfuggiti di mano: le occasioni, le relazioni, le inclinazioni, i lavori che ci siamo cercate e quelli che ci sono capitati per caso, le passioni che abbiamo coltivato, le donne che ci hanno aiutato a trovare la strada, i film che abbiamo visto e le canzoni che abbiamo cantato.  E sicuramente le migliaia di libri che abbiamo letto.

Mi sono spessa chiesta quali libri in particolare, e perché proprio quelli e non altri, e ponendomi queste domande mi è capitato di scavare sempre più in profondità e di andare a ritroso nel tempo, molto prima che nella mia vita comparissero le saggiste americane degli anni ’70 e Simone De Bouvoire e Virginia Woolf; sono così arrivata giù giù fino a Louise Alcott e le sue Piccole Donne. Abbiamo scritto e letto tutte di come dentro quel romanzo ci fossero già i modelli femminili in cui le ragazzine della mia generazione e di molte altre precedenti e successive potevano riconoscersi:  la saggia e concreta Meg, la bella e elegante Amy, la casalinga Beth (ma lei era al di fuori dal gioco “chi vorresti essere” perché destinata a morire giovane e senza storia); e poi l’anticonformista Jo, quella che aveva il coraggio e la fortuna  di poter seguire la propria inclinazione per la scrittura e diventare scrittrice, pur senza rinunciare alla relazione d’amore.

In quei lontani anni sul finire degli anni’50 eravamo tante a scegliere il modello Jo, come avremmo poi scoperto molto tempo dopo.  Ma perchè Jo, mi sono chiesta; perché non Meg o Amy? Cosa c’era stato nella mia esperienza di bambina che mi aveva affascinato al punto di farmi a preferire la sua determinazione a voler essere scrittrice piuttosto che l’aspirazione alla bellezza o alla perfezione domestica? E così, nel tentativo di scovare risposte nei libri che avevo letto ancora prima di Piccole Donne, ho ritrovato in bell’ordine nella mia libreria tre romanzi il cui ricordo non mi ha mai abbandonata e che non mancavano mai nelle letture delle bambine di allora: Il Giardino Segreto, La Piccola Principessa, In Famiglia. Negli stessi anni mi appassionavano anche altre avventure, come quelle di Robinson Crusoe  e I Ragazzi della Via Pal. Ma quei tre libri per me erano speciali e le rispettive protagoniste (che nel romanzo avevano più o meno l’età che avevo io quando le ho incontrate la prima volta)  mi hanno in vario modo accompagnata fin da quei primi anni di venuta al mondo della mia consapevolezza. Va detto subito che sin dalle prime righe emerge il loro essere inconsuete rispetto alle immagini rassicuranti della brava bambina dei nostri libri di scuola: Mary Lennox, nove anni,  protagonista de Il Giardino Segreto, era “una bambina antipatica e dall’aspetto scostante, i capelli biondicci e un’espressione dispettosa”; qualche riga più sotto viene ribadito che era cresciuta bruttina, gracile e scontrosa, molto diversa dalla sua bellissima mamma. Ha imparato a leggere non tanto per amore della lettura ma per noia. Sara Crewe, la Piccola Principessa, ci colpisce subito per i suoi “occhi strani e pensosi”, inconsueti sul viso di una bambina di sette anni; più avanti leggeremo che non pensava affatto di essere bella e che si stupisce quando se lo sente dire ritenendo sia una bugia interessata.  E infine Piera, “un tipo abbastanza strano” il cui aspetto fisico è definito dall’essere smunta, gracile, vestita di stracci e affamata. All’inizio della storia le prime due sono orfane di madre, mentre Piera lo diventa dopo poche pagine. Tutte e tre hanno padri variamente evanescenti e poco affidabili e anche loro muoiono subito o lo sono già. E’ quindi chiaro fin dall’avvio della storia che non sono solo bambine strane ma che nella vita dovranno cavarsela da sole, e così ha inizio la loro avventura.  I talenti che si ritrovano per le mani sembrano assai fragili, ma si riveleranno invece più che sufficienti a traghettarle alla grande nel mondo perché sapranno metterli a frutto. Vediamo come.  Mary all’inizio si ritrova in un ambiente sconosciuto e ostile, completamente diverso dall’esotica India dove è cresciuta. Confinata in una stanza isolata nel grande castello dello zio, pieno di misteri e di voci notturne, decide ben presto di andare alla scoperta del luogo in cui vive. Non si lascia spaventare dagli eventi misteriosi né dalle voci notturne, è curiosa e non ha paura “perché non era una bambina irresoluta e faceva sempre quello che aveva deciso di fare”.

Così in breve tempo viene a capo dei misteri che incombono sulla casa e scopre il giardino segreto. La scoperta non è casuale, avviene solo perché lei lo vuole. Ma fa molto di più: se ne prende cura, gli ridà vita. E nel fare ciò disobbedisce alle regole e agli ordini, seguendo il proprio desiderio. Ciò che la muove è quindi il desiderio ma anche il bisogno di avere uno scopo, che non si risolve nell’avventura fine a sé stessa ma in un prendersi cura di qualcosa che riprende a vivere sotto i suoi occhi e grazie al lavoro attento e ostinato delle sue mani.  In questo modo salverà non solo il giardino ma anche il bambino malato confinato in quelle stanze e il padre che non accettava la sua malattia. E così facendo salva anche se stessa, nel senso che costruisce da sé la propria felicità e il proprio senso dello stare al mondo.

Anche Sara, la piccola principessa, deve imparare molto presto a cavarsela da sola. Dallo status di ricca figlia del capitano Crewe e allieva del lussuoso collegio dell’avida Miss Minchin precipita all’improvviso nella condizione di orfana nullatenente tenuta per pietà e in cambio di faticose prestazioni da sguattera. Viene spogliata di tutto quanto possiede e la sua stanza diventa la soffitta. Ma Sara ha un’arma segreta e potente: la fantasia. Usa la fantasia per piegare la realtà alla forza del suo desiderio, inventa storie capaci di alleviare la tristezza e la durezza della vita quotidiana: “se immagini una cosa intensamente ti sembra come se fosse vera”.

La sua sfida alla realtà arriva fino al punto di farle dire “Io sono una principessa, come si comporterebbe una principessa nella mia situazione?”, e ad agire di conseguenza, ad esempio prendendosi cura di altre bambine ancora più sfortunate di lei.

Sarà anche questo suo comportamento di “mendicante strana” ad attirare l’attenzione su di sé e a capovolgere la sua precaria situazione. Certo, il lieto fine è favorito da una buona dose di fortuna, però alla fine arriva ampiamente meritato come ricompensa alla sua determinazione, al suo non perdersi d’animo e, ancora una volta, alla forza del desiderio. Inutile dire che, una volta sistemata la propria situazione personale, non dimenticherà cosa significa essere povera e abbandonata e si adopererà per aiutare altre bambine.

E infine Piera. Lei è nipote di un ricco industriale che non ha mai accettato il matrimonio dell’unico figlio con una donna straniera, e che li ha ripudiati; da un lontano paese dove il padre è morto si mette in viaggio con la madre malata per raggiungere la Francia e tentare di farsi accettare dal burbero nonno ma anche la madre muore lasciandola sola a sbrigarsela. Piera allora agisce lucidamente pur tra mille difficoltà e allo stremo delle forze riesce a raggiungere la città dove vive il nonno, a farsi assumere nella sua fabbrica e a guadagnare la sua fiducia solo in virtù delle proprie capacità. Lei ha un piano preciso: svelare la propria identità e farsi accettare non per compassione ma per i propri meriti. La cosa le riesce grazie a un’arma segreta, che questa volta è un talento materno:  dalla madre infatti le viene la conoscenza dell’inglese che lei saprà usare per diventare indispensabile al vecchio burbero. La parte più bella del romanzo, quella che mi è sempre rimasta in mente, è la sua capacità di cavarsela alla grande nelle situazioni più difficili, come scovare una capanna abbandonata sul fiume, costruirsi gli utensili indispensabili e persino un pio di scarpe, e al colmo dell’inventiva prepararsi una zuppa con l’acetosella raccolta nei campi e due uova rubate a un nido di arzagola! Purtroppo tutta questa profusione di talenti viene banalmente svilita dalle ultime righe del romanzo: dopo tante traversie, dopo aver guadagnato l’amore e la stima del nonno e averlo aiutato a costruire case e asili per gli operai lui conclude dicendole che per essere proprio felici e finalmente “in famiglia”  non resta che trovarle un marito degno di lei! Ma è evidente: la firma delle due precedenti storie è quella di Frances H. Burnett, che iniziò come la piccola Sara a inventare storie come rifugio dalla difficile realtà, e che divenne scrittrice affermata e capace di affermare verità contro il suo tempo e l’educazione vittoriana che lo permeava.

Mentre In Famiglia è stato scritto da Hector Malot, ovviamente un uomo. Va detto però che quel finale allora, nel 1957, non lo avevo affatto notato, e a restare viva nella mia memoria è stata la vicenda di Piera, la sua determinazione, la sua capacità di cavarsela da sola e di vincere i pregiudizi, anche grazie alla lingua materna. In conclusione, non voglio compilare elenchi di attitudini o modi di essere che possono aver hanno trovato sostegno in quelle lontane letture, ma certo posso dire che allora mi era stato mostrato cosa può fare una donna, se vuole. E che si possono vivere avventure meravigliose e strane anche senza andare in luoghi esotici e lontani,  perché la cura del mondo può essere qualcosa di molto concreto e a portata di mano, anche delle bambine.

Leggendaria, n.77