La voce di Laudomia Bonanni
“Il libro deve essere come un sasso che si butta per colpire”, così afferma Laudomia Bonanni parlando della scrittura e in particolare della propria. E questo suo romanzo, Il bambino di pietra, senza dubbio, centra l’obiettivo. Uscito nel 1979 era arrivato terzo nella finale del Premio Strega, che quell’anno fu vinto da Primo Levi, e di recente è stato ripubblicato dalla casa editrice Cliquot che ha scelto di dedicarsi alla ripubblicazione di testi di pregio scomparsi dalla circolazione e quindi dimenticati. Una scelta controcorrente che ha consentito di ri-scoprire piccole perle, come La vita involontaria, di Brianna Carafa e Viaggio di una sconosciuta di Livia De Stefani, un sostegno alla curiosità e alla passione per scrittrici dimenticate che anima tante lettrici come me. Personalmente rimpiango di non averlo incontrato allora, quando uscì, sul mio cammino di giovane femminista, e mi chiedo come mai ciò non avvenne. Di certo leggere la storia di Cassandra avrebbe rappresentato un sostegno alla critica dell’oppressione femminile come retaggio di un’educazione borghese e patriarcale; del canone della femminilità da cui liberarsi per diventare se stesse, della rappresentazione di “vocazioni femminili” centrate sul matrimonio e sulla maternità. E conosciamo tutte la potenza e la forza di persuasione che hanno le parole dell’invenzione narrativa. Di questo parla il romanzo di Bonanni, e lo racconta attraverso l’io narrante della protagonista che arrivata a cinquant’anni si trova a dover ripercorre la propria vita: un’educazione al divenire donna pervicacemente messa in discussione attraverso scelte controcorrente riguardo il proprio futuro, gli studi, il matrimonio, la decisione di non diventare madre. Un lavoro su di sé che le viene suggerito dallo psicanalista che l’ha in cura per una depressione senza nome; e come rimedio lui le suggerisce di scrivere, senza pensare: “E va bene, provo a scriverlo”. Con questa secca frase inizia il romanzo. E nello scorrere dei brevi capitoli la protagonista rivede se stessa in un’altalena di tempi tra passato e presente: l’infanzia, il rapporto con una madre impositiva, l’apprendistato sessuale e l’ossessione di un corpo fantasmatico che può generare e abortire. Scorrendo le pagine di un vecchio libro di ragazza ecco che ritrova alcuni ritagli di giornale in cui si parla dello strano caso di feti pietrificati, annidati nelle viscere di donne ignare di portarsi dentro quel carico, ossicini calcificati nel ventre, figli inespressi, bambini di pietra. E’ quindi la sua stessa protagonista a suggerirle il titolo del romanzo, dirà in seguito, precisando che “Non è un libro autobiografico, come si è creduto un po’ troppo. E’ autobiografico nella misura in cui lo è un qualsiasi libro di qualsiasi autore. L’ ho scritto perché è stato un argomento che mi si è imposto. La protagonista è un po’ la protagonista di tutto quello che ho scritto.” Ma sicuramente autobiografica è la consapevolezza che nuovi tempi erano arrivati per la libertà femminile, maturata in quegli anni ’70 in cui il libro iniziava a parlarle. Cassandra infatti ha una sorella, madre di una figlia ribelle, Amina, che deciderà di vivere insieme a quella zia inconsueta dentro il suo inconsueto matrimonio. Cassandra avrà una quasi figlia, che non si lascerà reprimere, non soffrirà d’impotenza. “Non ho sensi materni. Quello che provo è solidarietà femminile e una sorta di ammirazione quasi intimidita”. Laudomia Bonanni inaspettatamente torna a parlarci con voce chiara attraverso molte voci: quelle di tante giovani scrittrici e studiose che la stanno riscoprendo con autorevolezza, delle case editrici che la stanno ripubblicando, di suoi affezionati custodi che non l’hanno mai dimenticata, della Società delle Letterate che già nel 2013 le dedicò una passeggiata letteraria nella sua città, L’Aquila, e che sta preparando una nuova occasione per incontrarla ancora il prossimo settembre.