Con quella voce

Con quella voce

 

Ma tu cosa ne sai di teatro. Infatti non ne so niente, ma se ci vado magari capisco qualcosa. Così, tanto per ampliare un po’ gli orizzonti. Quest’ultima cosa degli orizzonti non so come mi è venuta, in realtà non me ne importa niente degli orizzonti, ma non mi andava di trascinare la discussione. Così ho risposto un po’ seccata e decisa a non lasciarmi scoraggiare. Tanto questa sera in televisione non c’è niente di interessante, ho aggiunto pentendomi subito, perchè era come se mi dovessi giustificare per forza. Ma come, non la vedi la fiction? No che non la vedo, le ultime puntate sono state noiose e ho perso il filo, ho risposto. Lei, la mia amica, mi ha guardato strana ma ho fatto finta di non accorgermene. L’ho mollata lì all’uscita del centro commerciale dove ci eravamo date appuntamento e sono scappata a casa un po’ a disagio perché avevo pensato che saremmo andate insieme, come facciamo sempre quando decidiamo di andare al cinema; ora però la cosa aveva preso una piega diversa. Pazienza, andrò da sola, mi sono detta mentre aprivo l’armadio per cambiarmi.

Avevo letto della rassegna di Teatro delle Donne sfogliando le pagine del quotidiano locale e mi ero incantata subito dietro le parole e i nomi che si rincorrevano nel programma. Ero curiosa di scoprire quello che mi avrebbero svelato, e andare a teatro per me era una novità che non avevo intenzione di perdere. C’è voluto un po’ a ritrovare quel posto che non era un teatro vero e proprio, come invece mi aspettavo, e sul momento la cosa mi ha delusa; ma è stato solo un attimo perché quando sono entrata si stavano già spegnendo le luci e mi sono seduta in fretta in un angolo, sui gradini. Con la coda dell’occhio ho sbirciato mentre veniva buio, giusto in tempo per vedere tutto intorno ragazze e ragazzi giovani e io in effetti potevo sembrare una nonna fuori posto, e meno male che non mi ero vestita elegante come immaginavo si facesse a teatro, ma comunque nessuno faceva caso a me e non c’è stato nemmeno il tempo di pensarci.

Il teatro non è come il cinema, questo l’ho capito un attimo dopo che si è fatto silenzio, perchè mi sono sentita all’improvviso da sola come se tutta la scena fosse stata preparata per me. Poi una musica forte, e lampi di luce a illuminare il buio. C’è una donna che avanza dal fondo e si ferma a pochi passi da noi, e intanto comincia a parlare in un dialetto incomprensibile. C’è così tanta rabbia dentro la sua voce, come di qualcuno che ha un dolore ma non si rassegna, che mi viene da piangere anche se non capisco nemmeno una parola e mi devo asciugare gli occhi se no non vedo niente. Grida la forza del suo dolore e ripete una frase in continuazione e così mi rimane in mente: a m’ so insmidà a m’so insmidà, e la ragazza che mi siede vicino forse se ne accorge che mi asciugo gli occhi con le dita, si china verso il mio orecchio e mi dice “mi sono instupidita “. Cosa? chiedo io. E lei: vuol dire “mi sono istupidita”, e poi ogni tanto mi traduce qualche frase proprio dentro l’orecchio altrimenti non sentirei niente perché la musica è potente e sembra di metallo e di pietre che rotolano giù da un monte e trascinano via tutto quello che incontrano. La voce è forte come la musica e anche di più, non pensavo che una donna potesse avere una voce così. La ragazza quasi mi urla nell’orecchio “mi sono instupidita nella voglia di perdermi nella nebbia, nel respiro lungo del vento, sono quasi morta, mi squarcio i panni, mi percuoto il viso, vorrei morire”.

Ma come si fa a morire con quella voce lì, non c’è niente che possa fare paura se si ha la forza di tirar fuori una voce come quella, penso, si può andarsene in giro per il mondo a testa alta, non come me che ho vissuto sempre rannicchiata in un angolo con la paura anche di respirare per non dare fastidio. Quando si riaccendono le luci e tutto finisce mi sembra di essere uscita da un sogno. La ragazza mi sorride e mi dice bello, vero? Io ho capito perché avevo già letto il testo, aggiunge. Ha i capelli cortissimi, è molto giovane e me la bacerei per ringraziarla ma farfuglio qualcosa a testa bassa e scappo via. Dopo, in macchina, quando sono certa che nessuno mi possa sentire, provo a urlare anch’io con tutto il fiato che ho, con tutta la voce che riesco a trovare: A m’ so insmidà a m’so insmidà, e non pensavo di averne tanta in gola. Io nella mia vita non mi sono mai instupidita, anzi, sono sempre stata molto saggia e ho fatto per bene tutto quanto andava fatto, senza mai alzare la voce. Ma quella voce lì se l’avessi avuta, se l’avessi trovata, forse avrebbe fatto di me una donna diversa.

Mentre tornavo a casa, guidando come in sogno, e poi nella mia stanza mentre mi spogliavo per andare a dormire, e mentre al buio aspettavo che mi venisse sonno, ho pensato a tutte le cose che avrei potuto fare se avessi avuto quella forza e quella voce, e la risentivo che continuava a urlarmi nella testa insieme al suono del vento e delle sirene in lontananza, ma forse era tutto un sogno. Invece no, perché al mattino ho scoperto che c’era stato un grande terremoto a L’Aquila e si era sentito anche qui, ma io non mi ero accorta di niente. Me l’ha detto la mia amica al telefono; al mattino ci sentiamo sempre e facciamo qualche programma di cose da fare insieme; ormai è un’abitudine. Non so se siamo proprio amiche, abbiamo lavorato per trent’anni nello stesso ufficio e un po’ amiche lo siamo diventate per forza; ci facciamo compagnia con qualche passeggiata, un film ogni tanto e una pizza, qualche chiacchiera. Io sono di buon carattere e mi adatto. Forse per questo, perché non se l’aspettava da me, si è seccata molto quando le ho detto che sarei tornata a teatro anche quella sera e due giorni dopo; ormai ho fatto l’abbonamento, ho mentito per tagliare corto. Si, me lo ricordavo che c’era il film del lunedì a prezzo ridotto, e mi dispiaceva farcela andare da sola, ma pazienza; qualche cambiamento ogni tanto non fa male, ho aggiunto sperando che capisse, lei però non mi ha risposto e ha chiuso il telefono. Doveva essersi proprio arrabbiata. La giornata è volata via, incollata al televisore per sentire le notizie del terremoto.

Alle nove puntuale ero lì, seduta un po’ in alto; subito prima dello spettacolo una ragazza che sembrava l’organizzatrice ha detto che a L’Aquila era morta anche una loro collega, ma che bisognava andare avanti comunque perché lei avrebbe voluto così. Tutti hanno applaudito, anche se c’era un’aria di tristezza. Quando si sono spente le luci di nuovo la stessa sensazione fortissima e strana della sera prima: di essere sola nel buio e che tutto accadesse solo per me. In scena una donna raccontava di Olga, la più grande di tre sorelle, e del suo desiderio di tornare a Mosca. Ricordava di quando era giovane e felice, e in sottofondo c’era una musica d’altri tempi come un valzer di nostalgia, e si capiva che il suo desiderio di tornare a Mosca in realtà era il sogno di ritrovare il passato e la giovinezza perduta. Pestava acqua con i piedi e parlava di alto mare, ma erano solo pozzanghere, e tutto era molto triste perché era chiaro che a Mosca non ci sarebbe tornata mai più e forse lo sapeva anche lei ma faceva finta di non saperlo; come quelle pozzanghere che fingeva fossero il mare. E così anche quella sera ho finito per piangere e sapevo benissimo che non piangevo per Olga ma per me, perché tutto si può sopportare se c’è una speranza, ma la giovinezza non ritorna e quella speranza lì è solo una fantasia e io francamente se dovessi dire quale speranza mi porto dentro oggi proprio non saprei cosa dire, e deve essere per questo che piangevo e non riuscivo a fermarmi. Quando si sono riaccese le luci mi sono guardata intorno e ho visto la ragazza che la sera prima mi aveva tradotto dal dialetto a m’so insmidà: mi ha salutata con un sorriso un po’ storto e ho pensato che forse si era immalinconita anche lei, ma una così giovane qualche speranza ce la deve avere per forza, e mi sarebbe piaciuto chiederglielo.

Subito dopo è iniziato un nuovo spettacolo e sulla scena c’era un’altra ragazza; aveva un foulard bianco e scuoteva la terra con il ritmo dei piedi ma la sua non era una marcia di guerra, batteva forte sulle assi di legno come se volesse risvegliarci tutti quanti dal sonno, sollevando polvere e pensieri. Il foulard bianco era per ricordare le madri di Plaza de Majo, ho letto nel depliant; ma quel suo battere ritmico dei piedi era come una corrente di forza, un cerchio di energia che mi trascinava in alto, e quel ritmo sembrava essere la mia voce che diceva io ci sono io ci sono io ci sono. Così, mentre alla fine applaudivo, era come se battessi le mani per tutti quelli che si erano risvegliati, per i ricordi assopiti, le madri che non dimenticano e i figli che vivono nella memoria; e anche per me stessa che ero lì insieme a tanti, felice di esserci e nello stesso tempo infelice per quelli che erano infelici. Però viva. Una cosa da togliere il respiro.

L’ultima sera mi sentivo ormai a mio agio. Dai commenti che coglievo prima dell’inizio capivo che c’era molta attesa per l’attrice con un nome famoso che tutti conoscevano tranne me. E quando è apparsa sulla scena è stato emozionante come le altre volte ma in modo diverso, così come tutte diverse le une dalle altre erano le emozioni provate nelle serate precedenti. Sulla scena è comparsa dal buio una donna alta che mi è sembrata molto bella, vestita di bianco, con i capelli lunghi sciolti sulle spalle e un portamento da regina. Teneva tra le braccia un manichino con la testa di teschio e ballava ondeggiando piano, e intanto parlava raccontando di un bambino annegato e di una ragazza scivolata nell’acqua mentre raccoglieva fiori. La sua voce alternava toni bassi e urla, come se dentro avesse gioia e dolore che dovevano per forza venir fuori insieme. Perché nella vita la forza e la debolezza sono mescolate e fanno parte di noi, così come il dolore e la gioia. Questo ero sicura di saperlo già, ma capirlo lì, dentro quel vortice di emozioni, era come sentirlo nella profondità del corpo, in un modo forse più doloroso ma così definitivo che alla fine mi sembrava di essere sempre io, la stessa di prima, però con un’anima nuova. E mentre me ne tornavo a casa sentivo un piccolo dolore perché tutto era finito; ma mi sentivo anche molto felice.

Il giorno dopo ho telefonato alla mia amica, mi dispiaceva che ci fossimo lasciate così male e avrei voluto dirglielo. Il tempo era buono e le ho proposto una passeggiata sul lungomare. Ha accettato e si sentiva che era contenta. Mi ha chiesto del teatro e io avrei voluto raccontare, ma ho capito che non avevo le parole giuste e che quelle sensazioni le avevo vissute e me le tenevo dentro, ma ci sarebbe voluto del tempo per farle maturare e tirarle fuori. Come quando si vuol fare un dolce e si mettono in fila tutti gli ingredienti, poi si mescola tutto, ma prima di metterlo a cuocere l’impasto deve lievitare. Così le ho detto solo che era stato tutto bello, e che mi sentivo più leggera. Non so se ha capito, ma per non farla sentire esclusa ho aggiunto che peccato che non ci sei venuta anche tu.

Dal Magdalena Project al Magfest. Un percorso sul teatro al femminile. Ed. Editoria & Spettacolo 2011