Agli albori del femminismo

Agli albori del femminismo

Nel numero 123 della rivista Leggendaria un mio articolo dal titolo Agli albori del femminismo, che racconta la vita e le opere di Margaret Fuller. Una vita intensa e appassionante, avventurosa e autentica, se pure breve, di una intellettuale e pioniera dei diritti delle donne. Grazie a Anna Maria Crispino, che lo ha ospitato nella sezione Ritratti della rivista. Di seguito, per chi non è abbonata e per chi non ha l’opportunità di acquistare la rivista in libreria,  il testo integrale dell’articolo. Ma vi esorto ad abbonarvi. Cliccate su www.leggendaria.it

 

Sono ormai trascorsi più di venticinque anni dal mio primo incontro con le parole di Margaret Fuller grazie al libro di Anna Rossi Doria, La libertà delle donne. Voci della tradizione politica suffragista. Da quell’incontro era nata una grande curiosità per quella pensatrice così poco conosciuta, e la scelta condivisa con alcune amiche di dare il suo nome all’associazione culturale che stavamo immaginando. Curiosità e ammirazione che venivano alimentate negli anni da nuove letture, scoperte, tracce cercate ostinatamente nei libri e nelle biografie che l’avevano raccontata, e in particolare quelle di ispirazione femminista pubblicate negli Stati Uniti.

Si è così via via svelata la storia di una vita singolare, vissuta con coraggio e passione: il coraggio di seguire le proprie inclinazioni, contro ogni convenzione, e la passione per la causa della libertà femminile; una vita intensa e difficile, in cui la cultura e la parola hanno rappresentato la strada per la realizzazione di sé e insieme degli ideali in cui credeva. Nata nel 1810 a Cambridgeport, Massachusetts, Margaret Fuller vive sin dall’infanzia la contraddizione tra il modello paterno e quello materno, tra la vocazione agli studi coltivata severamente dal padre avvocato e deputato, che sceglie di educare la figlia primogenita con il rigore che avrebbe riservato a un maschio, e il ruolo femminile impostole dal canone dominante. La giovane, intellettualmente molto dotata, viene quindi istruita nelle lettere classiche, nello studio del latino e del greco, e nelle letterature e lingue straniere, anche a prezzo di grandi fatiche fisiche e malesseri. Quando il padre muore la giovane Margaret ha venticinque anni. Non ha mai condiviso le occupazioni femminili delle sue coetanee, da tempo si occupa dell’istruzione dei suoi sette fratelli e ora diventa l’unico sostegno per la famiglia. L’atteggiamento della madre è ambivalente: che la sua primogenita lavori è necessario, ma non riesce ad accettare del tutto il desiderio di libertà di quella figlia così intelligente e diversa dalle altre, che ben presto trova lavoro a Boston come insegnante trasferendosi lì con tutta la famiglia. Insegna anche nella scuola fondata da Almos Bronson Alcott (padre di Luise Alcott, l’autrice di Piccole Donne, che trarrà ispirazione per un suo personaggio proprio dal tragico epilogo della vita dell’amica). A Boston, più aperta della natale Cambridge, può iniziare a realizzarsi seguendo le proprie idee; per guadagnare ma anche per mettersi alla prova inventa le conversazioni per le signore, che si tengono nella libreria di Elisabeth Peabody. Si tratta di lezioni a pagamento su temi culturali di vario genere, in cui insegna alle bostoniane a pensare, a riflettere sulla condizione femminile, sull’ingiustizia di una subordinazione simile a quella degli schiavi; e sulla bellezza di un mondo in cui i valori maschili e femminili potrebbero invece edificare insieme un’umanità migliore. Margaret però non è soddisfatta di sé, sente che le proprie ambizioni sono continuamente limitate dalla necessità, e ne soffre. In una lettera del 1836, nel giorno del compleanno, scrive: “…non so cosa saprò fare con la penna. Al momento non ho fiducia né speranza…Non penso che potrò produrre un lavoro di gran valore. Non sento in me la fiducia necessaria a sostenermi in una tale impresa, la fiducia nel mio ingegno”. Sta tentando di portare a termine una biografia di Goethe, e ha sperato invano di poter partire per l’Europa, viaggio a cui ha dovuto rinunciare per motivi economici. “Le circostanze hanno deciso che io non parta, ora tentano di farmi dimenticare anche me stessa…”.

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Nei circoli bostoniani

A Boston entra in contatto con il circolo Trascendentalista. Lei è intelligente, colta, attenta, abituata al sacrificio, devota nell’amicizia; Emerson le affida la redazione del periodico del movimento, The Dial, che si proponeva di offrire uno sguardo ampio sulla società e fornire un mezzo di espressione libera del pensiero per le menti dell’epoca, e che segnò un punto di svolta nella storia letteraria e culturale statunitense. Si tratta di un incarico delicato e importante, che la giovane donna assolve con grande abilità e del tutto gratuitamente in una sorta di maternage dato per scontato che dura due anni, e di cui è ben consapevole, quando in una lettera del 1842 scrive: “Non ho vissuto la mia vita…il mio sforzo è stato per gli altri, le loro vite sono state il mio obiettivo”. Intanto però traduce, pubblica saggi letterari, e nel luglio ’43 scrive The Great Lawsuit. Man versus Men, Woman versus women, che verrà pubblicato su The Dial . Nel saggio mette a frutto l’esperienza delle sue conversazioni per signore, riprendendone i temi e il tono colloquiale; due anni dopo ampliato con nuovi spunti viene pubblicato con il titolo Woman in the XIX century. Il libro vende moltissime copie, si stampano nuove edizioni in poche settimane, mentre il capolavoro di Emerson, Nature, impiegherà sette anni a venderne 500. Si tratta di un successo inatteso, che la ripaga finalmente dai tanti sacrifici e sofferenze. In questo testo, come nel saggio che lo ha preceduto, Fuller trae alimento dalle idee del movimento trascendentalista laddove propugnava il cammino di autorealizzazione che ciascun individuo deve compiere; ma le sue argomentazioni sulla “causa” femminile maturano nell’esperienza, nella riflessione, in gran parte solitaria, sulla vita delle donne e sulla propria. Da un viaggio avventuroso compiuto insieme a un’amica e al di lei fratello durante l’estate del ’43 nelle regioni dei Grandi Laghi, all’Ovest, osserva da vicino la condizione delle native che, nota, vivono più libere e rispettate delle donne bianche e più in sintonia con i ritmi della natura. Dalle riflessioni su quell’insolita esperienza trae spunti molto interessanti per un libro che pubblicherà nel 1844, Summer on the lakes, in 1843. Prima di darlo alle stampe si era documentata sulla letteratura di viaggio presso la biblioteca di Harvard ottenendo un permesso speciale per entrare nelle stanze di quel tempio della cultura maschile, che prima di lei nessuna donna aveva mai frequentato. Grazie alla fama conquistata con i suoi due libri, il New York Tribune le propone un incarico di redattrice delle pagine culturali, che accetta senza esitare. Finalmente può abbandonare la vita ormai soffocante del New England, lasciarsi alle spalle la malcelata malevolenza e invidia degli amici con i quali aveva condiviso idee e progetti, Emerson, Thoreau, Hawthorne, che cominciavano a vedere in lei un personaggio scomodo da esorcizzare anche con l’arma dell’ironia, quella che si rivolge alle “zitelle”. A New York scrive di cultura e di questioni sociali, articoli di inchiesta sulle carceri e gli ospizi, approfondisce il tema della prostituzione e lo pone arditamente in connessione con quello del matrimonio di convenienza, scrivendo:

“…cosa può fare una donna che non voglia essere moglie, né fare la sarta o la maestra?”. Ma di una siffatta condotta riprovevole uomini e donne sono entrambi ugualmente responsabili, sostiene. Finalmente ha trovato la propria strada: realizzarsi seguendo il proprio desiderio e lavorando con l’intelletto e con la penna. Ora può mantenersi con il lavoro di giornalista, ed è la prima donna americana a farlo, un primato che verrà replicato quando nel ’46 verrà inviata in Europa dal New Yiork Tribune come corrispondente per seguire gli avvenimenti politici che stanno maturando in quella parte così importante di mondo.

 

Finalmente l’Europa, e Roma

Ora può partire per quel viaggio tanto desiderato, e lo fa da donna libera, indipendente e famosa. Il giornale le anticipa il pagamento per quindici corrispondenze che lei si impegna ad inviare negli Stai Uniti, prima da Londra e poi da Parigi, dove la sua fama l’ha preceduta e le consente di incontrare Mazzini, Carlyle, Wordsworth, George Sand, Mickiewicz. In particolare con quest’ultimo e con Mazzini stringe un’amicizia feconda e durevole per i pochi anni che le restano da vivere. Nel 1847 arriva a in Italia, e poi l’incontro con Roma, fatale sotto molti aspetti. La sua vita ha preso una strada nuova: si sente partecipe, immersa e coinvolta negli avvenimenti straordinari di quei due anni, sostenere attivamente la causa di Mazzini. Scrive con regolarità le sue corrispondenze per il giornale, che tuttora rappresentano la più bella e approfondita cronaca della breve storia della Repubblica Romana. Margaret non scrive solo di politica, vive immersa nella vita quotidiana e la racconta con immediatezza e passione autentica: percorre la città e ne descrive gli ambienti e i paesaggi, partecipa alle feste di strada e si sente parte di quel popolo che sta costruendo una nuova storia. Lei, una donna americana che appartiene a una terra nata da ideali di libertà, capisce che quegli ideali “però si stanno affievolendo, minati dalla prosperità e dalla brama di guadagno…Gli amici mi scrivono per esortarmi a ritornare nella nostra patria, la terra del futuro. Ma quello spirito che ha creato tutto ciò che per me ha un valore al momento è più vitale qui che in America…Quanto vedo qui è degno di essere ricordato e se non posso offrire un aiuto attivo in quest’opera, sarei felice d’essere almeno storiografa di questo momento”. Le lettere si interrompono per alcuni mesi, da aprile a dicembre del ’48. Non fornisce spiegazioni di questa assenza dalla scena degli eventi, ma tra le righe della sua corrispondenza privata è facile intuire l’accaduto. Nell’autunno del ’47 ha conosciuto per caso in San Pietro un giovane della nobiltà papalina, Angelo Ossoli. Lei ha esitato di fronte a quel nuovo sentimento, si allontana da Roma, si confida per lettera con l’amico Mickiewicz che la esorta a vivere la propria vita, a non negarsi una possibile felicità con quel “piccolo italiano”. Qualche mese dopo rimane incinta, e quando la sua condizione non può più essere tenuta segreta si allontana da Roma per rifugiarsi prima a L’ Aquila e poi a Rieti dove avviene il parto. Se Margaret all’inizio della loro relazione temeva di ritrovarsi intrappolata in una monotona quotidianità, ora ammette di essere felice: Angelo è una brava persona, si dà da fare anche nelle faccende domestiche, come confida in una lettera ad un amico americano. Ma il tempo incalza, deve riprendere a scrivere per il giornale, occorre denaro; quello che le viene inviato dagli Stati Uniti rimane bloccato nella banca londinese a sua insaputa, e non arriverà mai. Parlando del proprio bambino in una lettera all’amica più cara scrive: “Se avessi un po’ più di denaro resterei qui per uno o due anni e vivrei solo per lui. Ma non è possibile; tutto ciò che nella vita è normale sembra che mi sia invariabilmente negato. Dio sa perché, suppongo”. Lasciato il bambino a balia torna a Roma, dove intanto gli eventi stanno precipitando. Riprende a scrivere le sue cronache, ma è oppressa dall’angoscia per il futuro della città e da strani presentimenti. Chiede all’America di intervenire in qualche modo per soccorrere i resistenti: „Mandate denaro, mandate incoraggiamento, riconoscete come governanti legittimi gli uomini che rappresentano il popolo“. Non esita a scrivere che dovrebbe essere nominato un ambasciatore più competente:

“Un altro secolo, e potrei chiedere di essere nominata ambasciatrice io stessa, ma il giorno della donna non è ancora arrivato…Quante cose dovrò raccontare su questo argomento, se vivrò ancora, cosa che non desidero affatto poichè sono molto stanca di battermi contro ingiustizie enormi; desidererei invece che qualche altra donna più giovane e forte di me si facesse avanti per dire ciò che andrebbe detto, o meglio ancora per fare ciò che andrebbe fatto.” Ora vive in Piazza Barberini; oltre a scrivere le sue corrispondenze per il Tribune ha iniziato una Storia della Repubblica Romana che conta di pubblicare una volta tornata negli Stati Uniti, come scrive al fratello. Giuseppe Mazzini le ha affidato l’incarico di dirigere l’ospedale da campo del Fatebenefratelli, mentre Cristina di Belgiojoso è la responsabile del servizio di assistenza ai moltissimi feriti nelle battaglie che si svolgono alle porte della città. Le due donne firmano insieme un appello alle romane affinchè si presentino per mettersi a disposizione, e accorrono in molte, tra cui non poche prostitute. In un crescendo di partecipazione e di angoscia per la situazione della città, tradita dal Papa e assediata dai francesi, racconta la resistenza di Roma e del suo popolo, mentre le cannonate distruggono i boschi di Villa Panphili, le dimore storiche, le vestigia dell’antichità, aprendo brecce nelle mura. E poi racconta la battaglia finale di Porta San Pancrazio, della partecipazione delle donne, delle centinaia di giovani garibaldini le “cui tuniche rosse ne fanno il bersaglio naturale del nemico. Mi sembra una gran follia indossare abiti simili in mezzo a uniformi scure, ma Garibaldi l’ha sempre fatto”. Dolore, angoscia, buon senso femminile e spirito pratico americano si fondono in un crescendo di pathos. Roma cade a luglio del ’49 e lei chiude le sue corrispondenze ricordando agli americani che quella sofferenza è anche la loro, deve esserlo, perché “L’umanità è una sola e pulsa con un grande, unico cuore”. Dopo aver ripreso il figlio Angelino a Rieti, la coppia si rifugia per qualche mese a Firenze. Ancora una breve pausa di serenità, pur nelle sempre più pressanti difficoltà economiche. Ormai non resta che partire, tornare negli Stati Uniti, dove potrà riprendere a lavorare e pubblicare il suo libro. Ma scrive di essere “molto triste, anzi, quasi paralizzata dall’angoscia”. Ha sogni ricorrenti e premonitori. E poi, come verrà accolta? Non ha molte certezze in proposito, ma scrive, “se mia madre sarà contenta, se Ossoli ed io saremo contenti, se il mio bambino crescerà felice, ciò basterà”.

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Presagi e naufragi

Non possono permettersi un imbarco su uno dei piroscafi di linea che salpano dai porti dell’Inghilterra o della Francia, sono troppo costosi. Così trovano un passaggio a buon mercato su una nave mercantile che trasporta un carico di marmo di Carrara e parte da Civitavecchia. Il viaggio è lunghissimo, due mesi funestati da problemi tra cui la morte del capitano della nave, che viene sostituito dal suo vice, non altrettanto esperto. Arrivati in vista della costa americana la notte del 19 luglio, il capitano nel buio non riconosce i luoghi, crede di trovarsi davanti al New Jersey e invece si tratta di Fire Island; la nave si incaglia in un banco di sabbia e inizia ad affondare mente la tempesta aumenta di intensità. La costa è vicina, molti riescono a raggiungerla a nuoto. Un marinaio cerca di mettere in salvo il bambino legandoselo sulla schiena, ma vengono travolti dai marosi e giungono morti a riva. Margaret Fuller e Angelo Ossoli scompaiono tra le onde. Testimoni racconteranno gli ultimi momenti della tragica fine, in cui lei appariva paralizzata e rassegnata, come se tutta l’energia che aveva impiegato nella vita le fosse venuta a mancare, alla fine. Come se sentisse che era finalmente venuto il momento di arrendersi. La notizia della sua scomparsa in mare si divulgò in poche ore. Emerson inviò subito l’amico Thoreau sulla spiaggia per cercare tra i resti del relitto le carte di Fuller, invano: il manoscritto sulla storia della Repubblica Romana andò perduto per sempre. Due anni dopo Emerson, Clarke e Channing diedero alle stampe tre volumi di Memoirs of Margaret Fuller, un lavoro di controversa onestà intellettuale, in cui lettere e ricordi personali dei tre si alternano a brani in prima persona, come se li avesse scritti Margaret stessa. Il materiale autentico, le sue lettere, era stato censurato, tagliato e ricucito, con un lavoro di forbici e colla, come si può vedere nei manoscritti originali conservati alla Houghton Library di Harvard e alla Boston Public Library, affinché il risultato finale corrispondesse all’immagine che si voleva diventasse quella ufficiale, epurata da intemperanze e scostamenti dal canone femminile. Nessun cenno al lungo lavoro come redattrice di The Dial né alle sue doti intellettuali, né tanto meno agli ultimi anni della sua vita lontano dal New England. Nei loro ricordi compare come “l’amica”, una donna dal carattere volubile, ambiziosa, spesso antipatica, dai nervi fragili. I familiari di Margaret, indignati dalla pubblicazione dei Memoirs, incaricarono una sua allieva delle Conversazioni di Boston di scrivere una contro-biografia, ma la morte del fratello che più teneva al progetto mise fine al tentativo. Le donne del suo tempo invece la riconobbero come meritava: il suo saggio venne posto a base della Convenzione di Seneca Falls del 1848, e la sua promotrice, Elisabeth Cady Stanton, scrisse che lei era stata “la più grande delle donne, non una donna che voleva essere un uomo”. Per le suffragiste americane rimase non solo l’autrice del saggio che più ne influenzò il pensiero, ma anche un modello di libera vita, che mostrò quello che lei stessa aveva scritto di donne come Mary Wollstonecraft e George Sand: “Un’esistenza che dimostrò il bisogno di qualche nuova interpretazione dei diritti delle donne più di qualsiasi cosa avesse scritto“. In una pagina del suo diario del 1840 scriveva: “Regnerò sempre attraverso l’intelletto, ma questa non è che la metà del lavoro. La vita, mio Dio, la vita sarà mai dolce?”. George Eliot, autrice di un saggio in cui mette a confronto Wollstonecraft e Fuller commenta con accenti commossi questo brano scrivendo : „Io sono grata, come se fosse per me stessa, che alla fine sia stata dolce“.

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La grande causa

In Italia fino a pochi mesi fa delle opere di Margaret Fuller fa era stata tradotta e pubblicata soltanto una raccolta delle sue lettere dall’Italia, dalla XVII alla XXXIII. Oggi finalmente, grazie alla casa editrice l’Ortica, abbiamo la possibilità di leggere per la prima volta in italiano il saggio The Great Lawsuit (tradotto con il titolo L’uomo contro gli uomini, la donna contro le donne. La grande Causa), che fu pubblicato su The Dial nel 1843.

Il saggio contiene già tutti gli elementi che verranno sviluppati e ampliati in quello che viene considerato il primo testo del femminismo americano, Woman in the nineteenth century di due anni dopo. Sostanzialmente il saggio pubblicato oggi in Italia è più agile e di agevole lettura, senza per questo nulla togliere alla completezza del pensiero di Fuller. Gli argomenti trattati sono molti, e si svolgono attraverso un fluire pacato di ragionamenti. Possiamo quasi udirla quella voce, anche grazie alla fine e accurata traduzione di Giuseppe Sofo che contribuisce a restituircela. E si tratta proprio di una voce che vuole dialogare, piuttosto che convincere, così come doveva risuonare nella stanza della libreria di Elisabeth Peabody a Boston durante le conversazioni per le signore. E’ bene tenere a mente leggendo l’opera che proprio quelle conversazioni sono alla base del saggio, come suggerisce il traduttore, perché ciò influisce sulla struttura del testo e il suo andamento in apparenza incostante, che ricorda il fluire di un conversare a più voci, di certo interrotto da domande e obiezioni, piuttosto che un vero e proprio trattato argomentativo. Il libro si articola in otto agili capitoli, che si susseguono senza titolo e senza numerazione, ma seguendo il filo di un discorso che si snoda senza soluzione di continuità, come se l’autrice iniziasse ad ogni nuovo argomento dicendo “Ricordate cosa dicevamo la volta scorsa?”. Proviamo ad enucleare i temi più importanti. L’inizio ripercorre con un linguaggio figurato i passi compiuti dall’umanità per raggiungere le vette più alte dello spirito. In questo percorso di crescita non tutti gli uomini hanno le stesse opportunità, e men che meno le donne, la cui condizione è molto simile a quella dei neri e dei pellerossa. Pertanto l’affermazione su cui si basa la libertà dell’uomo americano “Tutti gli uomini nascono liberi e uguali”, ha bisogno di essere messa in pratica davvero e resa applicabile a tutti. E proprio da parte di coloro che si sono impegnati per la causa dell’uguaglianza, tra cui moltissime donne, arriva la richiesta di tenere in conto i loro diritti, anche se questa rivendicazione viene vista con ostilità da parte degli uomini che la ritengono pericolosa per la saldezza della famiglia. Ma essere capofamiglia, ribatte Fuller rivolta ad un immaginario interlocutore, non significa essere capo di sua moglie. “Molte donne, prosegue Fuller, riflettono personalmente su ciò di cui hanno bisogno e che non hanno, e su ciò che possono avere quando scoprono di averne bisogno (…). Per questo non verranno prese misure in favore delle donne finché i loro desideri non saranno rappresentati pubblicamente dalle donne stesse”. Nel capitolo seguente si parte dal concetto dato per scontato che gli uomini possano rappresentare al meglio le donne. Fuller replica che l’uomo non potrà mai fare gli interessi della donna, i suoi sentimenti variano in base alle sue relazioni personali, e non potrà mai essere imparziale. La libertà deve essere accordata come un diritto, non come una grazia. “Ciò di cui la donna ha bisogno è di poter crescere come essere, di percepire come intelletto, di vivere liberamente come anima e di sfruttare a pieno le facoltà che le furono assegnate quando lasciammo la nostra casa comune”. E questo già accade, come dimostra la vita di Miranda. Qui Fuller introduce un personaggio fittizio che si racconta in prima persona, dietro il quale è facile scorgere la stessa Fuller. Miranda è l’esempio vivente “del fatto che le limitazioni imposte al sesso femminile sono insuperabili solo per le donne che le credono tali o che si battono chiassosamente per spezzarle. Miranda aveva preso la propria strada e nessun uomo poteva ostacolarla (…) Dobbiamo ammettere che sono stata fortunata e non dovrebbe essere così (…) Mi fu permesso di di avere precocemente fiducia in me stessa e se tutte le donne fossero tanto sicure della propria volontà quanto lo ero io, il risultato sarebbe lo stesso. La domanda è come ottenere questo risultato.” Ciò sarà reso possibile se le donne sapranno riconoscere quel desiderio in sé stesse e coltivarlo, lasciandosi ispirare dai grandi modelli femminili della storia e della mitologia. Già nell’antichità, qualunque fosse la realtà domestica, le mitologie esprimevano un concetto alto del femminile, “come Iside, di saggezza insuperata, o come Cerere e Proserpina, che sedevano l’una accanto all’altra, chiamate le Grandi Dee(..). E le altre tre forme, Diana, Minerva e Vesta, simili nell’essere ciascuna di loro autosufficiente” .

Oggi inoltre, prosegue, le donne possono ispirarsi non soltanto a figure del passato, ma attingere alle parole delle scrittrici, “che sono in crescita costante. Hanno preso possesso di tanti campi per i quali gli uomini le avevano dichiarate inadatte, che se pure essi continuino a considerarne alcuni inaccessibili per loro, è difficile dire precisamente dove debbano fermarsi”. Anche l’istruzione delle ragazze andrebbe affidata alle donne, che alla competenza possono unire la conoscenza dei reali bisogni del loro sesso: “I metodi e gli argomenti andrebbero modificati per questi nuovi casi e questo può essere fatto al meglio solo da chi ha esperienza degli stessi bisogni”. Pianificando l’istruzione delle ragazze, dovrà essere eliminata la finalità tradizionale dell’educazione femminile, quella di diventare compagne e madri migliori per gli uomini! Poichè “un essere di natura infinita non può essere valutato esclusivamente in base ad un’unica relazione, qualunque essa sia”.

Qui Fuller introduce un argomento molto interessante e nuovo per il suo tempo, evidenziando come “un segnale l’aumento della categoria che viene etichettata, in segno di disprezzo, come “vecchie zitelle”. Si tratta invece di donne che hanno una più vasta esperienza del mondo, vista l’opportunità offerta loro di raccogliersi nel proprio intelletto, e affiancare nel contempo il lavoro di cura in qualità di zie, all’interno di un’organizzazione della vita sempre più complessa. Le donne quindi, sostiene Margaret Fuller, non dovranno aspettare che la libertà venga loro concessa dagli uomini, ma piuttosto “ritirarsi in se stesse, ed esplorare le fondamenta dell’esistenza, finché non troveranno il loro segreto originale”. Non dovranno temere una vita di solitudine, anzi, guardare alla solitudine come all’opportunità di trovare la propria posizione nel mondo, quella che ella davvero desidera per sé, e non quella che altri hanno deciso debba essere, senza essere “disturbate dalla pressione dei legami prossimi […]. La donna centrata su se stessa non verrebbe mai assorbita da nessuna relazione”. Le donne nella vita quotidiana invece sono chiamate a farsi carico dei bisogni degli uomini, ma la sola ragione per cui lo fanno è che viene impedito loro di scoprire i propri. Ma “Se le donne fossero libere, se fossero così sagge da sviluppare a pieno la forza e la bellezza propria, non desidererebbero mai essere uomini o come gli uomini.” Ecco quindi il nucleo del pensiero di Margaret Fuller: le donne hanno il diritto di pensare a sé stesse, cercare aiuto nelle proprie simili, realizzarsi, così come alla propria realizzazione e crescita culturale e personale devono tendere gli uomini, per rendere possibile un vero incontro tra anime libere. E conclude dicendo: “Non esiste un uomo completamente maschile né una donna completamente femminile. Maschile e femminile rappresentano i due lati del grande dualismo radicale. Ma in realtà essi si fondono di continuo l’uno nell’altro. Ciò che è fluido si solidifica, ciò che è solido si fluidifica”.

Le argomentazioni di Margaret Fuller non sono svolte con tono rabbioso, spesso appaiono velate da ironia e improntate a un pacato ottimismo. E’ convinta che arriverà il tempo in cui ci saranno donne capaci di rivendicare i diritti fondamentali per tutte, e capire come avvalersene. Ma intanto oggi, a ben vedere “ Le donne sono in una posizione migliore rispetto agli uomini. Dispongono di buoni libri e di più tempo per leggerli“.

 

Un Pantheon di eroine

 

Ultimamente sembra essersi risvegliato un certo interesse nei confronti di questa pensatrice e scrittrice, piccoli segnali di attenzione, come ad esempio lo spazio che le ha dedicato Anna De Biasio nel suo Le Implacabili. Violenza al femminile nella letteratura americana tra Otto e Novecento. Senza voler entrare nel merito di un mai esaurito dibattito sulla declinazione del termine violenza e il suo territorio di genere, che qui prenderebbe troppo spazio, mi sembra interessante la riflessione dell’autrice su come, sebbene la categoria di “violenza” sia estranea alla concettualizzazione di Fuller, ella comunque evochi spesso figure reali o metaforiche, tratte dalla storia e dalla mitologia, di donne il cui eroismo non è estraneo all’uso delle armi. A detta dell’autrice, Margaret Fuller sembra voler affermare modelli di riferimento non solo tradizionalmente femminili, ma «in dialogo con più tradizioni», capaci di «abbracciare e promuovere i valori di onore, orgoglio, autorità, coraggio, forza fisica»; caratteristica quest’ultima, sottolinea Margaret Fuller, che le donne di ogni estrazione e condizione sociale conoscono bene, siano esse native pellerossa, mogli di coloni, operaie. L’estrema esemplificazione di questa non estraneità Fuller la ritrova nella partecipazione attiva all’azione bellica da parte delle donne romane durante l’assedio delle truppe francesi e nei combattimenti, come raccontò nelle sue corrispondenze inviate al New York Tribune. Ella stessa non si sottrasse alla partecipazione attiva durante la difesa di Roma, nel ruolo di coordinatrice dell’ospedale Fatebenefratelli, in coerenza con il principio che l’appoggio alla causa della violenza giusta fa parte della piena assunzione di responsabilità da parte di una donna. Un ulteriore esempio di come Margaret Fuller, morta a soli quarant’anni, pur non avendo avuto il tempo di scrivere la propria biografia, l’abbia comunque scritta vivendo la propria vita e testimoniando il proprio pensiero con passione e autenticità, da pioniera nella terra degli uomini.

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Margaret Fuller

L’uomo contro gli uomini, la donna contro le donne. 

La grande causa

Ortica editrice

Aprilia (LT) 2016

127 pagine, 10 euro.

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Anna De Biasio

Le implacabili.

Violenza al femminile nella letteratura americana tra Otto e Novecento

Donzelli, Roma 2016

224 pagine, 16,99 euro

 

Rossella Mamoli Zorzi (a cura di)

Un’Americana a Roma 1847/1849. M.Fuller

Edizioni Studio Tesi

Milano 1986

 

Anna Rossi Doria (a cura di)

La libertà delle donne

Rosenberg&Sellier

Torino 1990