La fabbrica di Beatrice Speraz, un’emancipazionista  nella Milano di fine ‘800

La fabbrica di Beatrice Speraz, un’emancipazionista nella Milano di fine ‘800

Conosciuta come Bruno Sperani, nome con cui pubblicò la quasi totalità della sua copiosa produzione letteraria, Beatrice Speraz è stata una protagonista del mondo letterario milanese postunitario. Molto attiva nell’editoria come scrittrice, ma anche traduttrice e giornalista per importanti riviste letterarie, fu una convinta emancipazionista e fervida sostenitrice del diritto femminile all’istruzione ed al voto. Nata in Dalmazia da padre slavo e madre italiana nel 1839, rimane precocemente orfana e viene allevata da parenti che la costringono a sposarsi all’età di diciotto anni. Da quel momento la sua vita si svolge tra peripezie sentimentali, maternità e matrimoni. Rimasta sola con tre figli da mantenere, entra nel mondo dell’editoria milanese, come non poche donne decise come lei ad emanciparsi e rendersi autonome attraverso il proprio lavoro. Nel 1876 comincia una collaborazione con il quotidiano milanese La Perseveranza, che estenderà poi ad altre riviste sia di ambito letterario sia generaliste, alternando vari pseudonimi (come Livia e Donna Isabella), fra cui presceglie infine la firma Bruno Sperani. La narrativa speraniana assume, fin dal 1885, con l’uscita de Nell’ingranaggio, dei tratti di critica sociale vicini alle posizioni dell’emancipazionismo femminile. In particolare, è attenta alla “questione della donna”, che viene variamente trattata dalla letteratura di mano femminile di area lombarda, e, soprattutto, al ruolo della donna nella famiglia e nella società, con le battaglie condotte dalla Lega Femminile per la riforma del codice di famiglia, l’introduzione del divorzio, l’estensione alla madre del diritto di tutela. Sono riscontrabili, inoltre, le influenze del movimento socialista – soprattutto nel romanzo La fabbrica del 1894– al quale l’autrice è personalmente vicina, come dimostrato dalla sua collaborazione a «Cronaca rossa» insieme a Turati, Cameroni, Virginia Olper Monis e Ghisleri. Milano e la Lombardia sono l’ambientazione fissa della narrativa speraniana, una città che si sta avviando a diventare la capitale industriale del paese, e in cui le contraddizioni di classe e le ingiustizie si fanno pesanti. La Fabbrica è il caseggiato, uno dei tanti che iniziano a popolare le periferie milanesi; protagonisti sono i muratori, i manovali sotto caporale, gli speculatori che sono causa della rovina di tanta povera gente. E poi c’è una folla di proletariato affamato e ricattato, popolato da donne. Memorabili le scene degli sfratti per morosità e delle vendite forzate dei poveri beni. La sarta Luisina si farà carico di una vendetta, nei confronti dello speculatore che ha causato il crollo del palazzo in costruzione: vendetta a mano armata, atto di giustizia, lo definisce lei mentre si avvia a compierlo. Anche in Tre donne, la cui vicenda ruota introno alla filanda dove le operaie lavorano allo stremo delle forze, la scrittrice escogita un finale in cui spicca il coraggio femminile: quando tutto sembra immobile e senza speranza, e le pretese dei capi impossibili da eludere, ecco che Nel medesimo tempo, ella provava per la prima volta in vita sua un bisogno strano di gridare, di strepitare, di picchiare i suoi pugni pesanti su qualcheduno, di sfogarsi in qualche maniera. Quasi senza sapere, per una ispirazione improvvisa le vennero sul labbro alcune strofe del Canto dei lavoratori,che certi giovinotti avevano sentito a Pavia e subito imparato, e insegnato agli altri. Il canto le sgorgò dal petto pieno di schianti e di lagrime. “Su fratelli, su compagne, su, venite in fitta schiera; sulla libera bandiera splende il sol dell’avvenir.” Le donne, trascinate da una forza arcana, si slanciarono. Alla seconda ripresa gli uomini le seguirono, tutti d’accordo. Le pareti tremarono; il rumore della macchina fu soverchiato. E il padrone che già s’allontanava, sostò in mezzo alla strada, ascoltando a denti stretti.

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