La regina degli scacchi

La regina degli scacchi

Ci siamo appassionate in moltissime alla storia di Beth Harmon, guardandola nella miniserie su Netflix. Certo, per la regia magistrale, ricca di particolari raffinati che ne hanno accresciuto il valore. Ma soprattutto per lei, la bambina e poi giovane donna, che trova la propria strada muovendosi con ostinazione in un mondo abitato esclusivamente da maschi.

Questa di seguito è la mia recensione pubblicata sull’ultimo numero di LetterateMagazione.

Una bambina dai grandi occhi seri guarda dritto verso di noi. E’ immobile, e alle sue spalle un auto distrutta e una donna sull’asfalto: sua madre, che pochi attimi prima con il viso rigato di lacrime le aveva detto “chiudi gli occhi”. E’ uno dei primi fotogrammi della serie uscita da poco su Netflix La Regina degli Scacchi: la bambina si chiama Elizabeth Harmon, ha nove anni ed è miracolosamente, si dice, sopravvissuta all’incidente mortale che le ha portato via la madre. Di lei sappiamo poco, se non da qualche veloce inquadratura che aveva una laurea in matematica, che il padre della bimba non ne vuole sapere più niente di loro, e che prima di quell’ultimo viaggio vivevano in una roulotte nel mezzo del nulla. La scena dell’auto ritornerà spesso nei suoi incubi di ragazzina che cresce nell’orfanotrofio di uno sperduto luogo nel Kentucky, e via via nella giovane donna che diventerà. La storia si dipana seguendo la muta esistenza della bambina in quel luogo che non è poi così male, dove ci si prende cura delle orfane anche somministrando loro una quotidiana dose di tranquillanti, in attesa che qualcuno si presenti per un’adozione. Beth sembra accettare tutto docilmente, ma chiusa in una bolla solo sua, finché un giorno scopre per caso nel seminterrato il vecchio custode intento a una solitaria partita a scacchi. Chiede, e pretende con ostinazione che lui le insegni. Comincia così il suo interesse sempre più intenso per quel gioco che richiede concentrazione, inventiva, sangue freddo, e che lei conduce con abilità straordinaria. scacchi-bambina

Arrivano i primi tornei scolastici, che vince senza forzo alcuno, unica ragazzina in un modo abitato solo da maschi. Anche per lei arriva il momento dell’adozione da parte di una coppia formata da una casalinga delusa e da un uomo silenzioso e assente, che ben presto sparisce nel nulla. Tra la nuova madre e la giovane Beth nasce un’insolita alleanza che, se in un primo momento sembra basata sull’interesse economico di entrambe, visto che la sua carriera di scacchista la porta sempre più lontano e i premi si fanno sempre più cospicui, via via lascia spazio alla solidarietà e all’affetto. Beth ormai è una campionessa anche se ha continuamente bisogno del sostegno di psicofarmaci e alcol, come del resto la sua nuova madre, che diventa la sua manager. Intorno a Beth si muove una schiera di amici, avversari di gioco, amanti occasionali, mentre lei scala tutti i gradini del successo, se pure in un’altalena di vittorie pubbliche e sconfitte private, in balia di fantasmi che riesce a tenere a bada a stento. Mentre la storia si dipana siamo sempre più catturate dal suo sguardo che si fissa su di noi, sugli avversari, per studiarli e indovinarne le mosse, sul soffitto, dove le compaiono come in trance i movimenti da fare per vincere, sempre, ancora una volta. Quando anche la madre adottiva morirà Beth resterà sola e a pochi passi dall’autodistruzione. Fino all’ultima sfida che la porta in Russia come campionessa americana, ancora unica donna in un mondo di uomini, a giocare contro l’acclamato campione mondiale Borgov. Mi fermo qui per non spoilerare, ma non posso tralasciare qualcosa che ci viene svelato nelle ultime scene, dove la rivediamo in macchina con la madre pochi attimi prima dell’impatto: mentre guardandola nello specchietto retrovisore la donna le dice “chiudi gli occhi” ecco che lei, invece di obbedire e seguire il destino che la madre aveva scelto per sé e per la figlia, gira la testa verso lo sportello e noi intuiamo che lo ha aperto, anche se non vediamo, e ha fatto in tempo a lasciarsi cadere fuori salvandosi. Questo è il miracolo che l’ha lasciata in vita: la sua determinazione a restarci. Ora l’ha capito, anche perché è riuscita a ricucire e dare senso alle tessere scomposte della memoria, a quei momenti che l’hanno aiutata a superare il buio: il vecchio custode, l’amica dell’orfanotrofio che la cerca e la ritrova, gli amici di un tempo, avversari e amanti. Ora Elizabeth Harmon è una donna nuova, e può concedersi il bellissimo finale a cui assistiamo con le lacrime agli occhi. La strepitosa attrice che l’ha interpretata, Anya Taylor Joy (classe ’96, che abbiamo visto protagonista di The Witch e di Emma, versione del celebre romanzo di Jane Austen), ha dichiarato in un’intervista di essere scoppiata in lacrime dopo aver girato l’ultima scena, perché “dopo aver tanto sofferto insieme a lei mentre giravo il film ero felice che alla fine avesse trovato un po’ di quiete”. Anch’io, ammetto, ho pianto.