Capire è inoltrarsi.

Capire è inoltrarsi.

Tenere l’anima raccolta in fronte ‘come la lampada dei minatori’. Sopportare d’essere fraintesa. Considerare la letteratura ‘un appello speciale della vita e un suo chiamarci quasi per nome, un nome destinato esclusivamente a noi’. Concentrarsi infine come se si trattasse d’obbedire a un decreto. Nessuna scrittrice ha mai detto, sulla vocazione, parole più assolute”. Così Grazia Livi parla di Gianna Manzini nel suo Le lettere del mio nome.

Toscana di nascita e romana d’adozione, intellettuale raffinata e sensibilissima, è tra le figure più interessanti nel panorama letterario italiano novecentesco. Sperimentatrice di forme aperte del testo, che la fanno avvicinare a Virginia Woolf, che conosceva e amava, il suo percorso è caratterizzato da soluzioni originali ed innovative che la pongono al di là delle tendenze letterarie. Apprezzata dalla critica e da grandi intellettuali, ma rimasta per troppo tempo confinata all’interno di un pubblico ristretto, oggi pare che possa finalmente essere riscoperta da una nuova rilettura delle sue opere anche grazie allo straordinario aiuto del suo archivio personale, che dipana nuove prospettive di ricerca e significati sui suoi testi. La sua carriera letteraria è stata costellata da successi: nel 1928 esordisce con Tempo innamorato, accolto positivamente come una ventata di novità dalla critica, e anche da scrittori europei, primo fra tutti Gide. Incomincia a collaborare alla rivista Solaria e nel 1930 è l’unica donna scelta da Elio Vittorini per l’antologia Scrittori Nuovi. Nel 1956si aggiudica il Premio Viareggio con La Sparviera, il romanzo le cui pagine iniziali sono state considerate tra le più belle della letteratura del ‘900.

Nata a Pistoia nel 1896 da una altolocata famiglia della borghesia locale, i genitori di Gianna dopo diversi anni decidono di separarsi a causa di contrasti tra le idee anarchiche del padre e quelle di stampo conservatore della madre. La loro separazione lascia una cicatrice indelebile nell’animo della bambina che con il passare degli anni si acuisce, soprattutto nei riguardi del padre. Un sentimento forte, venato di rimorso per non essergli stata vicino quando, per non aver mai smesso di opporsi al regime fascista, avere partecipato ad alcune cospirazioni contro il regime fascista divenendo un punto di riferimento per il movimento anarchico,   si ritira in un esilio volontario in un piccolo paese di montagna. qui subirà una violenta aggressione squadrista le cui conseguenze gli fermeranno il cuore dopo poche ore. Rimorso che affiora durante tutto il corso della vita, e trova uno scioglimento soltanto verso la fine, quando all’età di settantacinque anni, finalmente riesce a portare a compimento quello che aveva tentato sempre inutilmente: scrivere la storia del padre e insieme a quella nominare la propria manchevolezza. “Questa era la cosa più difficile. Perché nel profondo, fra tutte le emozioni entrate ‘in un cerchio di chiarità’, persisteva l’ombra. Era l’ombra d’ un tempo , non ancora affrontata”. Il libro viene pubblicato con il titolo Ritratto in piedi nel 1971 e vince il Premio Campiello. Morirà tre anni dopo. 

Ecco, era arrivata all’ultima piega della coscienza e ne estraeva la colpa annidata. Mise da parte la penna. Il processo della consapevolezza poteva finalmente chiudersi su questo culminante anello. ‘Capire è inoltrarsi’.”

(ndr Il virgolettato “ attiene a Le lettere del mio nome, di Grazia Livi, Iacobelli 2015, La Tartaruga 1991. Il virgolettato ‘ Ritratto in piedi, Ortica Editrice 2010)